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Autore
Benedetto Tangocci
Psicologo Psicoterapeuta

Nel numero 115 della rivista mensile l’Altra Medicina è presente un mio articolo dal titolo “Il senso della propria esistenza”, nel quale presento alcune riflessioni a riguardo

Quale è il senso della vita? E quale in particolare quello della propria esistenza? Queste domande sono troppo spesso liquidate come adolescenziali e accantonate in virtù di un supposto buonsenso secondo il quale non vi sarebbe una risposta, o comunque non sarebbe possibile trovarla, e pertanto non varrebbe la pena perdere tempo a pensarci. Ma non è così.

 

 

Il senso della propria esistenza

 

Quale è il senso della vita? E quale in particolare quello della propria esistenza? Queste domande sono troppo spesso liquidate come adolescenziali e accantonate in virtù di un supposto buonsenso secondo il quale non vi sarebbe una risposta, o comunque non sarebbe possibile trovarla, e pertanto non varrebbe la pena perdere tempo a pensarci. Secondo alcuni meglio sarebbe togliersele dalla testa o – se proprio non se ne può fare a meno – accontentarsi di una delle risposte offerte da una qualche religione. Eppure, a ben vedere, non sono certo domande ininfluenti che dovrebbero essere liquidate con leggerezza. Sia perché le risposte inevitabilmente costituiscono il metro di valutazione col quale si giudicano molte situazioni nella nostra vita. Sia perché, anche evitando di dare una risposta esplicita, col nostro comportamento ne diamo comunque una implicita. Mentre però con lo sforzo fatto tentando di esplicitare una risposta si matura la consapevolezza, lo stesso non si può dire se un qualche presupposto implicito viene adottato con acritica superficialità. Per questo, da psicologo e psicoterapeuta di Segnale, ritengo che per il proprio benessere psicofisico sia necessario riprendere in mano le domande esistenziali, forse troppo frettolosamente accantonate.

La dimensione nella quale affrontare la questione è quella spirituale. Col termine non mi riferisco a considerazioni necessariamente di tipo religioso ma intendo che la questione attiene a una più ampia riflessione su chi siamo, dove siamo e perché ci siamo, che per sua stessa natura è un tema spirituale. Se si liquida l’argomento come inconsistente non si è di fatto evitato di rispondere poiché, quale che sia l’idea che si abbia a riguardo, perfino il pensare di vivere una vita inutile in un mondo anche esso privo di senso, è comunque una posizione relativa alla dimensione spirituale. Anche ammettendo per il momento che quella in esempio possa essere la verità, ben diverso è esservi giunti tramite una valutazione superficiale o (ancora più spesso) per imitazione delle opinioni altrui, dall’averlo compreso a seguito di un’approfondita ricerca che, offrendoci le argomentazioni a sostegno del perché si ritiene che così sia, non sarebbe comunque considerabile tempo perso. Ad ogni modo, ben raramente chi a mente sgombra da pregiudizi si sia davvero concesso il tempo necessario a rispondere in autonomia alle domande in questione giunge alla conclusione che non ci sia senso alcuno. “Chi cerca trova”, afferma un celebre detto, anche in questo caso da considerarsi valido.

Occorre però cercare nel modo giusto. Per questo mi permetto di proporre alcune indicazioni a riguardo. Innanzitutto una vera ricerca spirituale non dovrebbe assomigliare allo “shopping in un grande supermercato”, non si tratta di scegliere tra le opzioni messe a disposizione nello “scaffale delle visioni preconfezionate sulla spiritualità”. Certamente il contributo di autori, religioni e tradizioni che a lungo si sono occupate dell’argomento è prezioso e utile da conoscere, ma finché rimane unicamente l’adozione superficiale di dogmi o di visioni altrui non può essere di alcuna utilità. Gli “ipse dixit” formano al più dei buoni adepti ma sono di per sé antitetici alla formazione di una vera consapevolezza che, per essere tale, deve in tutti casi potersi basare sull’esperienza personale. Anche perché, diversamente e pur impegnandosi con la massima dedizione, quasi sempre accade ciò che è perfettamente riassunto da un vecchio detto orientale, “Quando il saggio indica la Luna, lo stolto guarda il dito”. Ben diversa è la posizione di chi, come Jung (1959), in un intervista televisiva, così si sente di rispondere alla domanda se lui crede in Dio: “I don’t need to believe, I know”.

Ma come si può rispondere “non ho bisogno di credere, lo so” a questioni come l’esistenza o meno di una qualche divinità o principio superiore, o relative a un qualsiasi aspetto trascendente, se si tratta per definizione di aspetti metafisici (oltre la fisica)? La risposta, al contempo semplice e complessa, è: riflettendo, pensando, osservandosi, ascoltandosi, sperimentando. Si narra che Buddha raccomandasse di non credere a niente che non sia stato personalmente sperimentato, e certamente questo è il messaggio che ricorre anche in ogni percorso che possa dirsi realmente spirituale. Chiaramente, proprio come non si tenta di misurare la temperatura servendosi di una bilancia, non ha, né avrebbe senso, tentare di rispondere alle domande in questione con strumenti per propria natura inadatti, o viziati da pregiudizi. In questo ambito, i mezzi grazie ai quali è possibile sperimentare in prima persona sono sia quelli tradizionalmente utilizzati per entrare in uno stato non ordinario di coscienza, come lo yoga, il pranayama, la meditazione (nelle loro forme originarie, non in quelle occidentalizzate) o per mezzo di sostanze enteogene (da non confondersi con l’uso “ricreativo” degli stessi principi attivi), sia l’osservazione di sé nella quotidianità, a secondo delle tradizioni chiamata “ricordo di sé”, “creazione del testimone” o in altri modi. Tale lavoro si associa all’ascolto profondo di sé e a una riflessione teorica che consente di integrare quanto osservato in una più consapevole comprensione dell’esistenza. Il confronto con gli insegnamenti offerti dalle varie tradizioni è certamente prezioso per quest’ultima finalità, purché non costituisca un pregiudizio e in tal modo diventi un limite invece che un ausilio. Spesso infatti il miglior insegnante è quello che dice dove cercare ma non indica cosa trovare, lasciando libero il ricercatore di conoscere davvero in prima persona.

Pertanto, dove cercare è presto detto, essenzialmente dentro di sé. Cosa cercare è qualcosa che, per le domande da cui siamo partiti e sulla base dell’esperienza diretta, ci “risuoni” come una valida possibile risposta, sia pure parziale. A simili domande infatti poco si adatta la pretesa di trovare “la risposta”, ben più realistica è la paziente costruzione di una visione che via via si arricchisca sempre più di dettagli, ma che al momento può essere fatta anche di ipotesi che poi, in alcuni casi ci sentiremo di confermare, in altri di sostituire con descrizioni più approfondite. Su come cercarla ho già suggerito alcuni spunti a cui è bene aggiungere la raccomandazione di essere profondamente sinceri con se stessi e aperti a ciò che si scopre. Diversamente è sempre alto il rischio di illudersi poiché, come scrive l’Ariosto nel primo canto dell’Orlando Furioso, “il miser suole dar facile credenza a quel che vuole”. Meglio ribadire che il lavoro deve essere frutto dall’esperienza perché sia reale, se invece si attinge al fantasticare si può magari costruire una piacevole “bolla di esistenza” ma essa crollerà alle prime difficoltà. Lo si vede nei tanti occidentali che con fin troppo facile entusiasmo adottano le credenze professate da un qualche guru alla moda, e da subito si attivano per farlo conoscere a più gente possibile, per poi spesso mostrare un comportamento diametricalmente opposto a esse se ad esempio si ammalano o se devono affrontare una qualche situazione critica. All’opposto, la consapevolezza basata sull’esperienza si rafforza nei momenti di difficoltà, poiché sono proprio le nostre più profonde convinzioni che ci offrono le migliori opportunità di riuscita.

Infatti ricercare il senso della propria esistenza, lungi dall’essere una vana perdita di tempo, ha una finalità decisamente pragmatica. La propria visione del mondo e del proprio posto in esso costituisce una sorta di “frame”, la cornice all’interno della quale trova spazio ogni altra nostra considerazione. Per questo darla per scontata è una pessima idea. A seconda di quale visione (consapevolmente o meno) si senta propria, deriva ad esempio come si guarda a una stessa difficoltà, che può in alcuni casi essere vissuta come un insostenibile fardello ma in altri rappresentare una preziosa occasione di crescita. Nelle parole di Aldous Huxley (1933, p. 5), “Experience is not what happens to a man, it is what a man does with what happens to him”. Analogamente la felicità non dipende da cosa ci accade, a condizione che si sia appreso come guardare a ciò che ci accade. Occorre lavorare sulla propria narrazione interna finché non se ne trova una che si senta sia profondamente vera che “bella”. Non si tratta di fantasticare, poiché se una narrazione interna non la si sente vera a nulla può servirci. Ma chi ha provato a aprire le porte a simili domande sa bene che, nell’infinita dimensione del possibile, quantomeno a un certo livello di esplorazione, possono sembrarci ugualmente vere considerazioni in apparenza antitetiche. L’antitesi è spesso appunto solo apparente e, a un più approfondito livello di analisi, si trasforma in sintesi. Nondimeno sul momento appare tale, ci richiede di scegliere e per farlo l’estetica è un buon criterio. A dispetto della moderna visione che tende a relegare l’arte e, in special modo, la poesia a un livello di scarsa importanza, l’etimologia dei termini ci ricorda ciò che gli antichi sapevano bene e noi moderni dovremmo riscoprire. Infatti, il termine “arte”, attraverso il latino “ars, artis” deriva dalla radice indoeuropea “ar-” che significa “andare verso”, “produrre”; e il lemma “poesia”, attraverso il latino “pŏēsis” deriva dal greco ποίησις (póiēsis) a usa volta da ποιέω (poiéō) che significa “fare” (Cortelazzo, 1999).

La ricetta della felicità può consistere anche nell’imparare “a poetare la propria vita”. Vale la pena provarci. Lo si può fare in solitudine, nel confronto con le persone care, o assistiti da una guida, a condizione di non dimenticare che varranno veramente solo le poesie scritte col nostro più sincero impegno.

Bibliografia

Huxley, A. (1933). Texts and Pretexts. New York: Harper & Brothers.

Jung, C. G. (1959). Face To Face: Carl Jung interview. BBC: https://archive.org/details/face-to-face-carl-jung

Cortelazzo, M. (1999). Il nuovo etimologico: Dizionario etimologico della lingua italiana (2. ed.). Bologna: Zanichelli.

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